La storia è più o meno questa.
Ci sta un tipo paffuto a cui la madre rompe ‘na cifra le palle perché secondo lei è un mezzo genio e allora lo scassa una cifra con quel modo di fare delle madri noto perlopiù come l'”essere chioccia”. Il tipo dice vabè, che palle però, proprio a me che sono un mezzo genio però, uffa però, ma poi si convince che in finale meglio una madre chioccia che una madre tossica, e quindi tira a campare. Studia, si laurea, si masterizza, lavora all’Università. Poi va a fare il militare, torna, lavoricchia come insegnante, scrive cose, bazzica un po’ la strada, fa secondi lavori “umili”, tipo il venditore ambulante, l’operaio, comincia a frequentare il quartiere francese di New Orleans, assaggia l’alcool e pensa: mmm, buono… Nel frattempo scrive quello che lui ritiene un capolavoro ma nessuno gielo pubblica e poco dopo, depresso, si suicida nella sua auto attappandone il tubo di scappamento. Lì lascia un biglietto con un messaggio ma quella rompicazzo della madre lo intercetta e non lo diffonderà mai.
Circa dieci anni dopo la chiocciamadre, forse per farsi perdonare, forse perché vuole dimostrare al mondo che non si sbagliava quando andava dicendo a tutti che suo figlio era un cazzodiggènio, forse perché voleva diventare ricca e famosa, forse per altri motivi che io non essendo mezzoggènio non capisco, prende il manoscritto di quel romanzo tanto caro al figlio e lo porta da uno scrittore famoso dicendogli leggilo, l’ha scritto er mi fìo, fìdate, è fìco, ho detto fìdate, nun me fa ‘ncazza che c’ho ‘na certa età e me sento male…. Costui, in prima battuta schifato dai fogli tutti sporchi di unto e chissà cos’altro, poi avvinto dalla trama, ed infine rapito dall’opera, capisce di trovarsi dinanzi ad un capolavoro di un genio assoluto (non mezzoggènio come diceva la rompicoglioni…). Lo fa pubblicare: un successo. Un Pulitzer postumo.
Fine della storia.
Che però non è la trama del romanzo ma la vera storia dell’autore, John Kennedy Toole, che, sconfitto dalla vita, abbandona l’edificio. Ma non prima (per fortuna dell’umanità) di averci lasciato una perla che conserverò per sempre in quell’ostrica puzzolente che è il mio cervello. Gioiello che in maniera sopraffina, alta e delicatissima, ma anche caricaturale, va a toccare e gonfiare alcune tappe del vissuto dell’autore.
JKT non solo scrive un romanzo divertente, dissacrante, surreale, ma ci consegna questo eroe, Ignatius (nella foto in un’interpretazione teatrale di Nick Offerman) che salirà i pochi gradini del mio immaginario ed andrà a sedersi alla destra di Graziano Biglia, direttamente sul podio dei miei personaggi preferiti di sempre per sempre neisecolideisecoliàmen.
Ignatius Reilly, quindi, certo, ma non solo. Ci sono anche altri 5 o 6 personaggi ben delineati, e quantomeno un’altra decina da sviluppare nel seguito del romanzo che quel genio di JKT aveva previsto, lasciando tutte le porte dell’intreccio ben aperte. E invece quel cazzone del tipo della casa editrice ha detto no no no (come le Destiny’s Child sulle altalene), JKT non ha retto la botta, e io ora rimango senza seguito. Cioè, dimmi tu se ti pare normale: 26 libri di Sophie Kinsella che fa shopping, 76 libri del maghetto bacchettone inglese, 156 sfumature, e manca un seguito di questo capolavoro? Ma che mondo di merda!
Comunque vabè, fatevi un regalo e leggete questa perla. Ma soprattutto drizzate le orecchie perché la cosa molto strana è che fino ad oggi nessuno ne abbia ricavato un film o una serie tv. E secondo me, appena Hollywood smette di cagarsi addosso coi più remoti supereroi dei più remoti pianeti del cazzo, qualcosa uscirà fuori, a parte le sole messinscene teatrali.
E allora, quando uscirà il film o la serie tv (perché uscirà!…) voi con aria di superiorità infinita e ghigno inamovibile potrete dire la frase migliore di tutte e cioè: no, non ho visto il film, però ho letto il libro.
Perché d’altronde è per momenti come questi che si vive.
Nonostante tutto quello che hanno dovuto subire, i negri sono una popolazione davvero piacevole. Non che io abbia molto a che fare con loro, in quanto mi accompagno soltanto con i miei pari o con nessun altro, e siccome non ho pari, sono sempre solo.
Ciao.
Solo? Tu stai sempre con tua figlia!
😀
È Ignatius che parla in prima persona, cara Eva.