Questo libro, scritto nel 1960, è proprio un libro da nerd perché è ambientato nel Pleistocene e per capire che cazzo è il Pleistocene sono dovuto ricorrere a Wikipedia che lo spiega con questo bello schemino che riporto qui di fianco. Aaaah… Wikina mia, quante certezze mi dai.
Quindi ok, il Pleistocene è una delle ere preistoriche. E quel matto di Roy Lewis (che io chiamerò Jerry) vi ci va ad ambientare un romanzo dai plurimi risvolti comici che alcuni indicano come il più divertente degli ultimi cinquecentomila anni. E non a torto, se posso.
Titolo originale: The Evolution Man – Or, How I Ate my Father (L’uomo Evoluzione – O, Come ho Mangiato mio Padre).
Jerry ci racconta di una famiglia da poco discesa dagli alberi e alle prese con la fame e la sete ma soprattutto alle presissime con la difesa della propria esistenza messa in dubbio ogni cinque minuti da grossi felini e predatori vari. Tal famiglia però, guidata da un padre/leader molto ingegnoso, farà nelle circa duecento pagine che leggiamo impensabili passi in avanti nell’evoluzione.
Non vi dico altro perché non è nel mio stile raccontare trame, però devo per forza evidenziare col mio Stabilo Boss verdeàcido che la cosa esilarantemente spettacolare è che tutti hanno coscienza del loro posto nella storia. Cioè sanno che quello che fanno segnerà l’evoluzione, che dalle loro scelte dipende la velocità con cui l’uomo diventerà sapiens, che i loro progressi sono history in the making, in sostanza.
E siccome non riesco a spiegarvelo meglio di così, metto qui sotto un estratto abbastanza significativo:
“Papà come possiamo determinare dove ci troviamo?”
“Solo con metodi indiretti. Non mancano i segni, per chi sa leggerli. Ti faccio un esempio: se ci imbattessimo in un Hipparion, il cavallo con tre dita, vuol dire che siamo appena usciti dal Pliocene, e quindi ci troviamo solo all’inizio della nostra lunga, lunga lotta per migliorare. Allora sì che ci sarebbe da rimboccarsi le maniche! Non sareste nessuno, relativamente parlando, pure nullità”.
“Non l’ho mai visto io un Hipparion” osservò Osvald.
“E spero che tu non ne veda mai” disse papà. “Ma sapete com’è, questi modelli obsoleti sono lenti a scomparire. Saranno durati fino al Pleistocene inferiore, direi. Guardate il vecchio calicoterio: ce n’è ancora in giro un sacco!”
Ma voglio aggiungere anche un altro passaggio in cui il padre spiega al figlio Ernest, che crede di essere un gran pensatore, come stanno in realtà le cose. Ecco, immaginatevi questa scena di uomini scimmia che chiacchierano amabilmente, stipati in una grotta, seminudi, seduti intorno al fuoco (fuoco = fenomeno caldo e luminoso, pericoloso e spaventoso, scoperto da pochissimi giorni):
Quanto a te, Ernest, tu credi di saper pensare, ma in realtà non puoi, perché la gamma delle cose che facciamo é troppo limitata. Ciò significa non poter estendere il nostro ridottissimo vocabolario e la nostra rudimentale grammatica; il che, a sua volta, comporta scarsa capacità di astrazione. Il linguaggio precede e nutre il pensiero, come sai; e in realtà è poco più che una cortesia chiamare linguaggio le poche centinaia di sostantivi di cui disponiamo, la ventina di verbi tuttofare, la misera scorta di preposizioni e di suffissi, la continua necessità dell’enfasi, della gesticolazione e dell’onomatopea per rimediare alla scarsità dei casi e dei tempi. No, no, figlioli miei; culturalmente siamo poco più evoluti del Pithecanthropus erectus, il quale, credete a me, ha il destino segnato.
Nerdy ma fico.
Nient’altro da aggiungere.
Saluti mastodontici.