Questo romanzo è la cosa più sarda che mi sia mai capitata. Sia chiaro, io non è che proprio ho a che fare con la tradizione o la cultura sarda, però ad esempio ho conosciuto svariati sardi durante il servizio militare, vado in Sardegna praticamente tutti gli anni, e in ultimo bevo tantotànto mirto (non so se questa cosa vale…). Però, ecco, una cosa così impregnata di Sardegna io non l’avevo mai vista, figuriamoci letta.
Gesuino Némus, pseudonimo dietro al quale si nasconde tal Checcazzo Nesò, scrive questa cosa qui che voi non potete capire che cosa è – una cosa bella di bellezza, proprio. Ricca di ricchezza. Oltre che, come già detto, sarda di Sardegna. E siccome non c’è peggior sardo chi non vuol sentire, ora sentite quello che vi dico (leggete quello che vi scrivo).
Il tipo scrive ‘sto romanzo che è come un panino imbottito in cui riesce ad infilarci il cinghiale, Cala Goloritzé, i gipeti, il fil’e ferru, la cocòi ‘e tamàta, la cicuta, il Cannonau, la pecora arrosto, la Vera Gazzosa di Sardegna, Cala Luna, i culurgiònes e tanti altri elementi caratteristici però senza ammucchiarli come fossero un elenco o un tributo dovuto alla sua terra, ma incastrandoli alla perfezione e facendotene sentire pure l’aroma (e anche l’alazio – ok, scusate).
Il romanzo è ambientato in Ogliastra, ovvero quella parte della Sardegna evidenziata in figura, nel paese immaginario di Telévras; temporalmente siamo nel 1969, a ridosso del primo sbarco sulla Luna. Leggendo si incontrano dei personaggi che a dirli sembra di raccontare una barzelletta, e un po’ in effetti è così: c’è il parroco del paese, Egisto don Cossu, gesuita colto e sveglio, amante del cannonau, del fil’e ferru, patito di caccia al cinghiale; ci sono due bambini, i protagonisti di questo racconto, che per diversi motivi non vivono con le famiglie e che il parroco ha preso con sé, Matteo Trudìnu e Gesuino Némus (nel racconto, Gesuino parla quasi niente ma scrive dei biglietti, che poi diventano titoli di paragrafi che invece scrive il parroco: il titolo del volume che li raccoglie si chiamerà proprio La teologia del Cinghiale. Quindi il titolo di questo libro e anche lo pseudonimo dell’autore sono presi dall’opera scritta dai suoi personaggi, che per me è una gran genialàta). Poi, tornando ai personaggi della barzelletta, non potevano di certo mancare i carabinieri: il maresciallo De Stefani, trasferitosi in Sardegna dal continente, e il carabiniere semplice Jacheddu Piras, che invece è nativo di Telévras. Intorno a questi ne ruotano vari altri, tra cui spiccano lo scomparso Bachisio Trudìnu, padre di Matteo, Peppinu Golòvru, bandito del paese, sospettato di aver fatto sparire Bachisio, Tore Baccanti, barista sentimentale della zona, Antoni Esolugu, lo scemo del villaggio – ma anche compositore e cantante di verità da decifrare – e infine Carlo Schengen, fotografo capitato per caso a ridosso degli eventi che si innamorerà della Sardegna e della sua gente. Anche l’ingresso nella storia a gamba testa del personaggio di Carlo, ad esempio, è un altro colpo di genio dell’autore. Compare a metà inoltrata – si prende quasi tutta la scena.
La storia è avvincente, parte barzelletta e diventa gialla. Pregna di citazioni fatte soprattutto dal parroco del villaggio, unico custode non solo delle anime ma anche del sapere. Don Cossu, unico letterato in una zona dove l’analfabetismo è più diffuso del Cannonau, cicca qualche congiuntivo ma dispensa senza parsimonia perle come questa qui sotto.
Insomma checcazzovedevodì: per me un capolavoro. Divertente, serio, ignorante, schietto. Una bomba.
Ciao.
Sa beridàde in ci d’antrenganta scetti a is màccus [La verità l’appioppano sempre ai matti].